Enfants terribles
Una delle regole di chi scrive recensioni è di non usare mai la prima persona. Fa un po' tema scolastico o pensierino della buonanotte. La adottiamo anche noi di Nerdface. Esistono casi, però, in cui è davvero impossibile porsi al di sopra delle proprie emozioni. È il caso di Metal Gear Solid, nella versione che approdò su PS1 nel 1998, videogame figlio della mente geniale di Hideo Kojima. Non un gioco, ma una vera e propria esperienza di vita.
Permettetemi, quindi, una digressione davvero personale. Non sono mai stato un grande videogiocatore, anzi. La PS1 arrivò quasi casualmente, più per non sentirmi diverso dai miei amici che per seria convinzione. Era l'epoca in cui le console potevano essere craccate e, in giro per Roma, come in tutto il resto del Paese, gli ambulanti snocciolavano i CD masterizzati dei titoli del momento, tipo esibizionisti. Altro che rose. Bei tempi. Io avevo uno spacciatore di fiducia: era il portiere notturno di un hotel ambiguo, vicino casa mia. Durante le passeggiate col mio cane, era solito palesarsi, un po' Igor e un po' Lorenzo di Guzzanti, e proporre qualche titolo di grido. Una sera mi sottopose Metal Gear Solid, che per mole occupava ben 2 dischi e dunque costava il doppio. «Fidate, vale la pena». Mi fidai. Ancora oggi gli voglio bene. Perché lo giocai e mi ci inchiodai male. Piansi al finale. Ne volevo ancora. E dunque, una sera, infilai in un orrido zainetto giallo PS1, controller e dischi, deciso a far vedere alla comitiva del tempo questo videogame. Vi ricordo che non c'erano gli smartphone, internet era agli esordi e la maggior parte delle serate erano trascorse in piazza, davanti alla cabina telefonica pubblica, in cerca di spicci per chiamare a casa l'inevitabile Godot, destinato a non arrivare mai e a condannarti a svernare all'aperto. In quel caso, come grande gesto rivoluzionario, l'appuntamento era a casa della mia ragazza dell'epoca, i cui genitori erano provvidenzialmente partiti: ero pronto a sfidare la sua ira e ad andare in bianco, pur di mostrare a tutti che razza di capolavoro fosse Metal Gear Solid. Accolto con titubanza anche dagli altri del giro, montai la PS1 e «solo 5 minuti» fu la chiave di volta che convinse ognuno a darmi retta. Risultato: mi fecero giocare per 13 ore di seguito, ingozzandomi di cibo, facendomi ingurgitare litri di caffè e infilandomi una sigaretta in bocca non appena finivo la precedente. Ometto le bestemmie e gli improperi d'incoraggiamento, ma sempre nel segno della creatività.
Metal Gear Solid era un gioco stealth, d'infiltrazione. Nei panni di Solid Snake, membro dell'unità Fox Hound, eri chiamato a sventare una minaccia terroristica. Tuo fratello, Liquid Snake, a capo di un gruppo di soldati dai poteri in alcuni casi soprannaturali, aveva preso possesso della base militare di Shadow Moses, col suo carico di testate nucleari. Il ricatto verteva sulla richiesta dei resti di Big Boss, una leggenda militare. Inutile dire che il prologo apriva a mille colpi di scena. Perché Metal Gear Solid, sin dall'inizio, era presentato come un film, coi titoli a scorrere durante le sequenze video dell'arrivo di Solid Snake alla base. Eri costretto a valutare con cura le strategie: le opzioni erano sempre diverse e ognuna presentava difficoltà peculiari. Camminare sulla neve comportava lasciare le impronte, riconoscibili dalle guardie. Viceversa, scegliere altre strade più pulite poteva costringerti a evitare videocamere o a usare stratagemmi per evitare d'essere intercettato, come bussare sulle pareti, per attirare l'attenzione in luoghi dove non saresti passato. Tutto il gioco era pensato per evitare gli scontri diretti, insomma. Una vera rivoluzione.
Metal Gear Solid, però, era molto di più. E restano memorabili tantissimi momenti. Il primo scontro con Revolver Ocelot, personaggio centrale nei capitoli successivi della saga. L'uso determinante delle sigarette, in dotazione di Solid Snake, personaggio non a caso mutuato da quel Jena Plissken di 1997: Fuga da New York. Lo scontro con Psycho Mantis, quando il controller smetteva di funzionare. Quello drammatico contro Sniper Wolf, la cecchina tanto bella, quanto letale. I punti esclamativi sulla testa dei soldati semplici, quando facevi qualche stupidaggine che ti metteva allo scoperto. Le scatole usate per nascondersi. Il doppio finale, a seconda dell'esito di un interrogatorio. I diversi modi per evadere dal carcere, quando eri inevitabilmente catturato. L'apparizione del Metal Gear, un qualcosa a metà tra robot e tank, ultimo ritrovato per lanciare testate nucleari, e la scazzottata sul suo dorso, contro tuo fratello. E l'aspetto più geniale in assoluto: mettere il videogiocatore al centro della storia, in una sorta di meta-gioco in cui il messaggio pacifista e anti-nuclearista ti costringeva a riflettere sulle tue azioni, controller alla mano, mentre eri educato alla guerra al pari dei soldati addestrati in realtà virtuale di cui facevi carne da cannone. Il resto, come si dice, è storia. Metal Gear Solid ha avuto numerosi sequel, non sempre all'altezza, va ammesso. Ma, almeno per me, ha dato vita a un rito: a ogni nuovo appuntamento, la comitiva s'è sempre riunita per ripetere quella notte indimenticabile. Più organizzati, ma sempre tenaci e con qualche inevitabile perdita nel corso del tempo, abbiamo ripetuto tante notti in bianco quanti sono stati i capitoli successivi proposti da Hideo Kojima. Noi, per sempre enfants terribles.
di Ludovico Lamarra
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