Scappa: Get Out
«Lo sanno che sono nero?»
Ah, i bei tempi! Quelli in cui il cinema, in ogni genere, aveva storie degne d'essere raccontate e, soprattutto, nascondeva nelle sue pieghe spietate e feroci riflessioni, se non proprio critiche sociali. Non faceva eccezione il filone dell'Horror, anzi, ne era il paradossale braccio armato. Come lo Zombi di George A. Romero: ambientato in un centro commerciale, di quelli alienanti che oggi infestano anche le nostre città, instillava il dubbio su chi realmente fossero i morti viventi. Loro, o forse noi? E chi era venuto per liberare chi? Per non parlare di Non Aprite Quella Porta, l'originale di Tob Hooper e non gli orribili remake recenti: un'allegoria malata della nuova generazione americana, destinata a essere letteralmente macellata dal profondo mondo rurale contro il quale si stava ribellando. A rinverdire i fasti di un genere che, ammettiamolo, vive di cliché triti e ritriti, provocando più sbadigli che salti dalla poltrona, arriva Scappa: Get Out, primo film di Jordan Peele. Il regista viene dalla commedia e negli USA è molto noto, avendo vinto anche un Emmy Award, ma coltiva da sempre una passione per l'Horror, che ritiene sia catartico nel suscitare paure e toccare corde nascoste del nostro intimo, esattamente come farebbe una sana risata. La pellicola è incentrata su una giovane coppia: lui è un nero, brillante e intelligente; lei è bianca e smaniosa di presentarlo ai suoi genitori. I dubbi di lui, su come potrà essere accolto, si infrangono con la monolitica certezza della ragazza circa il progressismo dei genitori, il loro essere sperticati fan di Obama e di vedute molto aperte.
I due partono, nonostante i dubbi del migliore amico del protagonista, anch'egli nero e impiegato come guardia giurata. Il viaggio inizia e non c'è tempo d'arrivare a destinazione che Jordan Peele ci mostra con esattezza quale sia il problema razziale negli USA, appena la coppia sarà fermata da una pattuglia della stradale. Un piccolo assaggio, dunque, del tema al centro di Scappa: Get Out, quello dell'integrazione razziale, o meglio ancora, di un certo tipo d'ipocrita ostentazione di progressismo, che dell'uguaglianza fa paradigma del proprio credo. Quel velo di ipocrisia così ben descritto da Giorgio Gaber, quando cantava «in Virginia il signor Brown era l'uomo più antirazzista, un giorno sua figlia sposò un uomo di colore: lui disse “bene”, ma non era di buon umore».
L'incontro con la famiglia di lei sarà inizialmente sorprendente, poi sempre più inquietante. Dal linguaggio usato dal padre, con una serie di espressioni da ghetto style assolutamente fuori luogo, lui chirurgo bianco, all'arredamento della casa, con tanto di quadretti celebrativi delle imprese di campioni dello sport come Jesse Owen (recentemente ricordato in Race: il Colore della Vittoria) tutto suona artefatto e manieristico. L'unico personaggio apertamente ostile è il fratello di lei, immediatamente messo a tacere dalla madre, terapeuta ipnotista, insieme al marito perfetta rappresentazione di quell'America liberal, salottiera e borghese. Inoltre, nella villa immersa in un bosco, lavorano due persone di colore, una cameriera e un addetto alla cura del giardino, con evidenti turbe mentali. Insomma, non si tratta soltanto di un'affettata ostentazione d'accoglienza: tutto suona sinistro e una serie di episodi metteranno in guardia il giovane su quanto potrebbe accadergli. Questa prima parte è decisamente la migliore di Scappa: Get Out. Ne tratteggia il messaggio e lo fa attraverso una serie di circostanze e di battute al limite della satira, anche nel descrivere in modo macchiettistico l'amico del protagonista, davvero un coacervo di luoghi comuni sui neri americani, tra pose e slang. Le atmosfere sono perfette e infondono una profonda inquietudine, condivisa con la coppia, sempre più in dubbio sull'aver fatto la scelta giusta, decidendo di debuttare in famiglia e società con troppa leggerezza.
La seconda parte di Scappa: Get Out vira su toni più da horror ed è anche la meno interessante, sebbene abbia un gusto vagamente retrò. Una volta svelato l'intreccio e snocciolati i vari colpi di scena, peraltro piuttosto prevedibili, il film perde buona parte del suo fascino e s'attesta su solidi binari, resi tali dalla collaborazione in fase di produzione con Blumhouse. Non è un limite, come dimostrato dal successo avuto dalla pellicola negli USA, dove ha incassato una quantità di dollari enormemente superiore al costo realizzativo, ma il naturale sbocco, per certi versi grottesco, di tutto quanto avvenuto prima. Non mina in alcun modo Scappa: Get Out, che rappresenta davvero un boccata d'aria fresca.
di Ludovico Lamarra
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In questa recensione sono citati:
• Non Aprite Quella Porta (film, 1974)
• Race: il Colore della Vittoria (film)
• Zombi (film)