Il regista del cinema filosofale
Ci può essere grande cinema dietro le oche? Secondo Terry Gilliam sì. Del resto, si sa, lo humor inglese spesso è complicato, difficile da trasmettere fuori dai canoni grammaticali d’Oltremanica e, se le origini sono americane, la formula rischia di condurre alla follia. Tra i miei registi preferiti, Terry Gilliam è stato da sempre un autore capace di colpire forte. Ai tempi dei Monty Python i suoi folli cartoni in decoupage erano capaci di turbarmi fin nel midollo, con denti a tagliola, automobili assassine e mascellone balbettanti, in cui Bosch pareva scontrarsi con Jacovitti e dare vita a visioni iperrealistiche e nonsense. Ma la lente con cui Terry Gilliam ambisce a deformare la realtà, tratteggiando interi mondi personali, non può rimanere confinata nel gruppo. Così, nel 1981 lo porta a firmare la prima regia cinematografica con Time Bandits, la storia di un ragazzo vittima di un gruppo di nani cleptomani che, grazie a una mappa del tempo, viaggiano tra le epoche sottraendo Gioconde e tesori micenei.
Pur all’esordio, Terry Gilliam aveva talmente tanto charme da spendere, che poté reclutare nientemeno che Sean Connery nel ruolo di Agamennone. A questo primo tassello della trilogia dell’immaginazione segue, nel 1985, il supervisionario Brazil, candidato all’Oscar per la sceneggiatura e capolavoro distopico della fantascienza onirica, in cui spicca un eccezionale Robert De Niro. Sospesa tra Orwell e Fellini, questa psichedelica visione racconta di un futuro soggiogato dalla burocrazia, in cui il sogno sembra l’unica dimensione in cui cercare un’evasione. Tre anni dopo, Terry Gilliam porta sul grande schermo un capolavoro come Le Avventure del Barone di Munchausen, un sontuoso fantasy supportato da un cast sempre più grande che, con quattro nomination agli Oscar e un mare di critiche entusiastiche, fu però stroncato al botteghino. Ma, come un vino pregiato, questa pellicola ha dimostrato di saper reggere il peso del tempo e di restare strepitosa anche agli occhi del pubblico del terzo millennio. Tra valzer lunari e fughe in mongolfiera, il film, ispirato ai racconti di Rudolf Erich Raspe, narra la storia di un eroico sognatore che decide di riunire i suoi antichi sottoposti per rompere l’assedio di una città venduta dai suoi stessi dignitari.
Spinto dall’entusiasmo di una giovanissima Uma Thurman, il bizzarro Barone ritrova i suoi guerrieri che, grazie alle loro inumane capacità, spezzano infine l’assedio, rivelando il potere dell’immaginazione. Nel 1991 Terry Gilliam mette la sua visione al servizio della follia umana e, con La Leggenda del Re Pescatore, scommette su un film duro e difficile, in cui Robin Williams e Jeff Bridges affrontano temi come l’emarginazione e la pazzia. Un DJ di successo cade in disgrazia per il senso di colpa legato all’aver scatenato un pazzo armato in un locale. Anni dopo incontra un barbone che, perduta la moglie in quell’attentato, ha perso la testa ed è convinto di dover recuperare il Santo Graal. Alla fine i due rimettono ognuno a posto i problemi dell’altro.
Grazie al discreto successo di questo film, nel 1995 Terry Gilliam torna alla Fantascienza, mettendo in piedi uno dei suoi film più estremi e riusciti, L’esercito delle dodici scimmie. Tra viaggi nel tempo e pandemie, vediamo un brillante Bruce Willis partire da un futuro in cui l’umanità è costretta a vivere sottoterra per evitare l’estinzione, a causa di un virus scatenato nel passato da una misteriosa banda di animalisti, guidati da uno sciroccato Brad Pitt. Sospeso tra psicofarmaci e riluttanza, questo film riuscì a convincere il grande pubblico con immensi incassi, confermando Terry Gilliam come un peso massimo del grande schermo. Forte di questo successo, nel 1998 il regista dirige il discusso Paura e Delirio a Las Vegas il cui progetto, per oltre 12 anni, era rimasto in un cassetto. Un reporter, Johnny Depp, e il suo avvocato samoano, Benicio Del Toro, decidono di sfruttare un evento lavorativo a Las Vegas, con l’obiettivo di consumare una mostruosa scorta di stupefacenti.
Confermando la tendenza ad alti e bassi del regista, la pellicola fu un insuccesso al botteghino, pur interpretando in maniera solenne una delle pagine più cool della controcultura americana legata alle psichedelie, al sogno infranto del ’68 e alla protesta contro il sistema tramite l’abuso di droghe, in uno degli Stati con le leggi più severe degli USA. Nel 2002 il documentario Lost in La Mancha, girato da alcuni suoi collaboratori, racconta l’impossibilità di portare a termine il film L’uomo che uccise Don Chisciotte, che vede poi la luce nel 2018 e che meriterebbe un approfondimento a parte; nel 2005, poi, Terry Gilliam dirige I Fratelli Grimm e l’Incantevole Strega, una rivisitazione macabra e godibile delle fiabe dei famosi scrittori. Heath Ledger e Matt Damon sono due impostori che, forti di una troupe compiacente, spaventano ignoranti paesani per farsi assumere come cacciatori di mostri. Quando però si imbattono in una serie di vere magie, sono costretti a rimboccarsi le maniche per scoprire i segreti delle sparizioni di alcune ragazze in un villaggio. Bello come la Bellucci, l’incantevole strega, questo film fangoso e pieno di oche fa di nuovo salire le quotazioni del regista, che ambisce a recuperare i diritti del suo Chisciotte. Nello stesso anno esce Tideland, che però è praticamente boicottato dalle distribuzioni internazionali.
Nel 2009 Terry Gilliam porta al cinema il kolossal Parnassus: l’uomo che voleva ingannare il Diavolo, ricordato per la tragica scomparsa del protagonista Heath Ledger prima della fine delle riprese. Grazie al contributo di Johnny Depp, Jude Law e Colin Farell, è completato e portato in sala come omaggio alla memoria del Joker di Christopher Nolan. Questo film torna ai temi ideali del teatro, dell’immaginazione e dello specchio come strumento per ribaltare la realtà, tramite cui il Dottor Parnassus offre ai suoi spettatori di scoprire i segreti dei propri sogni. Nel 2013 con un Christoph Waltz all’apice come protagonista, Terry Gilliam dirige The Zero Theorem, in cui tornano le atmosfere di Brazil e Twelve Monkeys, con un film di fantascienza onirica e distopica più vicino alle criticità del digitale e del contemporaneo, in cui un hacker in attesa di una telefonata rivelatrice finisce vittima degli incubi provocati dal suo lavoro. L’intera carriera di Terry Gilliam è contrassegnata dal desiderio di dare forma a visioni originali. Questo artista geniale e sfortunato, capace di vedere oltre le apparenze e dotato dell'inusuale capacità di miscelare ingredienti improbabili alla ricerca di una cinematografica magica, ha saputo intercettare l’interesse di grandissimi attori, attirati dalla consapevolezza di poter lavorare in progetti mai banali. Senza mai smarrire la sua voglia di creare e poco incline ai compromessi, Terry Gilliam ha saputo nel tempo confermarsi come uno degli interpreti più ispirati del cinema contemporaneo, facendo di quell’onnipresente senso d'imperfetto, tipico delle sue opere, un vero e proprio marchio di fabbrica. Pochissimi hanno saputo mantenersi integri in questo senso e per questo i suoi fan sono sempre disposti a perdonargli iperboli d’ogni genere, consapevoli del miracolo garantito dall’esperienza d'assistere a ogni sua opera. Per questo, senza grimorio ma con infinita ambizione, questo alchimista del grande schermo, sempre a un passo dalla perfezione, può essere considerato un regista filosofale.
di Marco Mogetta
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