Sola andata
23 Febbraio 1996. Una di quelle date che e un’intera generazione, non solo di cinefili, fatica a dimenticare. Segnò l’uscita in sala di uno dei film che, più di altri per la sua crudele prepotenza, diventò un cult degli anni '90. Determinò anche la consacrazione di Danny Boyle tra i migliori registi del panorama cinematografico indipendente e di Ewan McGregor come uno degli attori inglesi più interessanti in circolazione. Soprattutto, Trainspotting seppe essere voce ed emblema di un disagio generazionale fino a quel momento tenuto nascosto, accantonato ai margini non solo della società, ma anche della narrazione.
In primis, il merito del successo di Trainspotting sta nel romanzo di Irvin Welsh da cui fu, che nel 1993 sconvolse la letteratura e un Paese che, fino a quel momento, s'era celato in un eccesso di perbenismo medio borghese che ben si confaceva all’idea impressa dalla Lady di Ferro, Margaret Thatcher, alla sua Gran Bretagna. È da un sottosuolo suburbano abbandonato che escono fuori Mark Renton, Sick Boy, Bedbie, Tommy e Spud, protagonisti del film: una generazione di poco più che ventenni già arresi all’idea che stiano più a loro agio abbracciando un water, inginocchiati in un sudicio bagno pubblico d'Edimburgo, piuttosto che incastrati in una vita banale tra famiglia, lavoro, colesterolo e altre simili oscenità.
Danny Boyle prende l’irriverente testo di Welsh, lo ripulisce delle parti più esasperatamente di condanna politica, intrisa in ognuna delle pagine del suo romanzo, e fa qualcosa che nessuno fino a quel momento aveva osato fare: un film sulla tossicodipendenza in cui i protagonisti sono orgogliosamente drogati e fanno apertamente ed esplicitamente uso e abuso d'eroina e di diverse altre sostanze stupefacenti, erette a unico elemento fondante delle loro esistenze. È lo stesso protagonista, Mark, un Ewan McGregor cui sarebbe bastato questo singolo ruolo per essere ricordato tra i migliori attori di sempre e che per fortuna ha continuato a interpretarne tantissimi altri, a dire d'aver scelto «un’onesta e sincera tossicodipendenza», in modo da non doversi più preoccupare del sesso, del lavoro o dei rapporti sociali. E, paradossalmente e non senza una ottima dose all’epoca di laceranti critiche e accuse d'apologia dell’eroina, è in questo concetto che sta la grandezza epocale e generazionale di Trainspotting.
Fu in grado di portare lo spettatore al limite di un baratro che sembrava senza uscita, seguendo le vicende di un gruppo di amici disfunzionali e il cui valore massimo attribuito era quello della dose che si sarebbero iniettati di scena in scena. Catapultò il pubblico in una città vissuta freneticamente, ma solo nel disagio di doverci vivere; in famiglie assenti, se non compiacenti della distruzione dei propri figli; in amori anch'essi tossici, privi d'empatia e comprensione, se non nella commiserazione e nella consapevolezza che una relazione amorosa possa finire, ma il legame con la tossicodipendenza no. Trainspotting soggiogò le platee d'allora perché composte da molti giovani di quell'epoca, già più che consapevoli di quanta verità ci fosse nelle vite e nei racconti di quei cinque, miserabili eroinomani.
Nonostante i loro genitori e la classe politica elogiassero il lavoro svolto nella lotta all'ondata di tossicodipendenti che aveva riempito le strade negli anni '80, quasi vent'anni dopo i ragazzi stavano già iniziando a sperimentare il baratro della crisi economica, sgretolamento di un futuro di benessere accarezzato a lungo e sul quale l’eroina, che stava tornando in giro, facile a procurarsi e iniettarsi con la stessa noncuranza di Mark, avrebbe facilmente attecchito. Quel legame malato tra dei cinque protagonisti di Trainspotting era lo stesso di molti di loro, amicizie di facciata pronte a tradire per 16.000 sterline, come avviene nel film.
Sulle note di una colonna sonora accuratamente scelta, tra hit di quegli anni e intramontabili evergreen (si passa, anche con una certa disinvoltura, da Lou Reed e Iggy Pop ai Blur e gli Underworld), Danny Boyle confezionò un perfetto esercizio di stile, andando a tracciare la linea, costantemente mantenuta nel corso degli anni, della sua scelta registica. Lo fa prendendo a piene mani dai suoi riferimenti cinematografici di sempre: Tarantino, nell’esasperazione dell’attenzione maniacale al dettaglio (vedi il modo di riprendere le due supposte che Mark cerca di recuperare con bramosia dal fondo del water); Kubrik (la discoteca Volcano è un evidente omaggio ad Arancia Meccanica); i fratelli Coen, Almodovar, Russel e Roeg. Da ognuno di loro, Danny Boyle trae ispirazione, reinventando i suoi miti e trasformandoli per rendere al limite del poeticamente pulp i suoi personaggi, andando davvero a parlare direttamente a quei giovani cui Trainspotting voleva parlare, ma solo sul finale del film. Lascia che sia Mark a parlare, poco dopo il tradimento dei suoi amici di sempre, con una frase emblematica, un monito: «Choose life». Danny Boyle zittì così tutte le accuse a Trainspotting, invitando il pubblico a non restare passivo spettatore di treni che passano, ma piuttosto di rincorrerli.
di Joana Fresu De Azevedo
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