L'inutile guerra dei nerd contro un Dio
Nerdface è una testata laica: pochi articoli religiosi sono emersi fra le migliaia di righe scritte. Un esempio è quello dedicato ad Akira Kurosawa, un altro quello a Francis Ford Coppola. Oggi, da buoni politeisti, vi parleremo di un altro regista entrato di diritto nell'Olimpo del cinema, la Settima Arte: Martin Scorsese, sebbene ultimamente, per via delle controverse parole sui film dell'UCM, definiti «parchi giochi» e non cinema, alcuni comuni mortali abbiano provato persino a detronizzarlo, facendolo passare per un regista qualunque. Ovviamente costoro, sebbene le loro parole siano validate dalla libertà di parola, non riusciranno a scalfire minimamente l'eredità lasciata da un vero Dio in Terra, come direbbe René Ferretti in Boris: «Perché tu sei 'na merda e lui è un mostro sacro!». Martin Charles Scorsese nasce a New York nel 1942, da genitori italiani, entrambi attori part time. Grazie alla loro passione per il cinema e all'impossibilità di praticare sport per via di una forte asma, insieme alla sua famiglia il giovane trascorreva tantissimo tempo al cinema. Spesso affittava in videoteca i film di Michael Powell e Emeric Pressburger che, a detta sua, hanno influenzato molto il suo modo di fare cinema. Non c'era solo quello classico fra i suoi miti adolescenziali ma, da buon italiano, ha sempre ammirato il Neorealismo di Rossellini e De Sica, così come Michelangelo Antonioni e Federico Fellini.
Nel 1964 Martin Scorsese inizia gli studi alla Tisch School of the Arts della New York University, girando i suoi primi corti, fra cui The Big Shave (1967), 6 minuti di sangue a simboleggiare un attacco alla Guerra in Vietnam, testimoniato dalle dichiarazioni del regista stesso: «Sono quasi riuscito a convincermi che si trattava di un film contro la Guerra del Vietnam, che quel tizio che si rade meticolosamente e finisce col tagliarsi la gola. Era un simbolo dell'americano medio di quei tempi. Avevo anche pensato di chiudere con immagini d'archivio del Vietnam, ma erano inutili». Lo stesso anno, inizia con Chi sta bussando alla mia porta?, una delle più incredibili e gloriose carriere nella storia del cinema. Francamente è difficile commentare il lavoro di un innovatore, esteta e genio della Settima Arte che, in un periodo così florido del cinema americano, la Nuova Hollywood, ha avuto modo d'esprimersi al massimo delle sue possibilità. Grazie a un movimento artistico, in seguito ammazzato da Lo Squalo di Steven Spielberg, Star Wars di George Lucas e inavvertitamente da I Cancelli del Cielo di Michael Cimino, Martin Scorsese è riuscito a imporsi e a farsi ben volere dal pubblico. Ovviamente non senza inciampi: ricordiamo New York, New York (1977), il musical con Robert De Niro e Liza Minnelli, che floppò clamorosamente al botteghino. Per il regista che aveva impressionato tutti con Taxi Driver (1976), fu un colpo quasi da KO. Figura retorica non casuale: dopo una pausa, condita da droghe che lo hanno quasi ucciso, e la depressione, Martin Scorsese si rialza prima del gong con uno dei più grandi capolavori della storia del cinema, Toro Scatenato (1980).
Grazie all'ossessione di Robert De Niro per Jake LaMotta, protagonista del film, Martin Scorsese riesce a identificarsi nel pugile, uno sportivo, la sua antitesi. In effetti però, il ring è la metafora perfetta per il periodo che stava vivendo, a terra come la sua carriera, pieno di problemi. Autore e personaggio riescono a risollevarsi in grande stile, da veri combattenti. Probabilmente dobbiamo ringraziare un potere superiore, quindi probabilmente Martin Scorsese stesso, se questa concatenazione di eventi ha fatto sì che una così grande forza della natura sia riuscita a sconvolgere per sempre la storia del cinema. Forza riconosciuta da chiunque abbia mai lavorato con lui, come Jonah Hill, al programma radiofonico di Howard Stern. Ne esaltò la capacità decisionale, paragonandolo a un giocatore di scacchi senza orologio.
Martin Scorsese è un genio, c'è poco da fare. Dispiace che alcuni abbiano trovato offensive e senza senso le sue parole su l'UCM, facendolo passare per un superficiale. Effettivamente, però, tutta la carriera del regista s'è basata esclusivamente su rischi e progetti fatti con passione, non con l'obiettivo d'andare incontro al pubblico. Se aveste visto Silence (2016), capireste che una pellicola del genere è fatta per esternare i ragionamenti sulla fede, non per battere il record di incassi di Avatar. La potenza dell'artista e non della multinazionale è tutta lì, in un turbinio di emozioni e sperimentazioni, atte a portare avanti il cinema e non a utilizzarlo come macchina da soldi. Infatti, come ha dimostrato con The Wolf of Wall Street (2013), insieme alla sua musa, Leonardo DiCaprio, Martin Scorsese è riuscito a rimanere non solo rilevante, ma pure in grado di stare al passo con tecniche di regia e linguaggio cinematografico contemporaneo. Se il mondo dei cinecomic lo ha preso in antipatia, è giusto ricordare che il tanto acclamato Joker è molto più che un semplice omaggio a Martin Scorsese (che per anni ha rischiato addirittura di produrre quella pellicola), ma un vero e proprio mash-up di Taxi Driver e Re per una notte (1983).
Martin Scorsese è riuscito a rendere evento anche andare al cinema, riempendo le sale anche per The Irishman, una pellicola che nel giro di pochi giorni andrà a finire su Netflix, battendo la forza di gravità, quella spinta potentissima verso il basso che spinge le nostre chiappe a rimanere comodamente sedute su un divano, invece di gioire dell'arte collettiva cinematografica. Per parafrasare un personaggio caro ai suoi nemici: «È ineluttabile».
di Valerio Massimo Schiavi
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