The Zero Theorem
«Essere solitari non vuol dire essere soli»
Quando esce un film di Terry Gilliam, io sono sempre molto felice. Ho amato praticamente tutti i suoi lavori, che hanno il pregio d'essere pochi e intervallati l'uno dall'altro da diversi anni. Come a dire: mica mi metto alla regia tanto per, occorre avere qualcosa da dire. Inoltre, bisogna sottolinearlo, sovente le sue pellicole hanno avuto problemi in fase di realizzazione, tra ritardi o vere e proprie cause con le produzioni. Accadde per Le Avventure Del Barone Di Münchausen e drammaticamente capitò con il recente Parnassus, sospeso e poi ripreso faticosamente e tra mille ripensamenti dopo la scomparsa del compianto Heath Ledger, il quale ne era protagonista. Uscito nel 2013 e giunto da noi solo oggi, arriva così The Zero Theorem: potendo contare su un Christoph Waltz in un inedito look alla Kojak, peraltro co-produttore del film, l'ex Monty Python torna sul luogo del delitto e ci scaraventa come consueto nelle sue visioni distopiche del futuro, alla stesso modo di quanto fece con L'Esercito Delle 12 Scimmie e, soprattutto, con quel capolavoro di Brazil: se voleste approfondire il tema, potete recuperare il bell'articolo del nostro Alessandro Sparatore cliccando il link. Caratteristica principale del regista, secondo il mio parere, è catapultare lo spettatore in un mondo per alcuni aspetti molto prossimo e per altri incredibilmente lontano dal proprio. La Fantascienza di Terry Gilliam, infatti, ha un impatto visivo unico, nel quale elementi architettonici e di vita comune si mescolano a tecnologie pop, sgargianti e paradossali, tra richiami a diversi filoni del genere, dal Cyberpunk allo Steampunk. Una gioia per gli occhi, da un lato, un tuffo a volte inquietante da un altro, proprio perché il futuro da lui tratteggiato risulta poco distante da noi, molto credibile e dunque fortemente temibile.
The Zero Theorem non fa eccezione, anzi esaspera questi elementi caratteristici e ne rivela pure un altro ancora: nessuno spiegone iniziale ci dirà perché la società sia giunta a quel punto, quale sia esattamente la mansione lavorativa del protagonista Qohen, perché sia in attesa spasmodica di una misteriosa telefonata in grado di dare risposta a tutte le sue domande sulla vita, a cosa servano gli innumerevoli calcoli cui si sottopone presso la sua azienda o per quale motivo la sua abitazione sia una chiesa sconsacrata, tra effigi sacre e apparati tecnologici brulicanti di cavi e pulsanti. Da spettatore, sei obbligato ad accettare quella realtà così com'è, a entrarci dentro in modo brutale, cercando di cogliere in dialoghi inizialmente e in apparenza privi di senso un filo da seguire. Christoph Waltz, dunque, presta il proprio volto sornione a un protagonista debole e impaurito, peraltro in modo perfetto e lontano da certi svarioni caricaturali e macchiettistici di alcuni film recenti, come Big Eyes. L'attesa di questa chiamata, unita alla paura di perderla per doversi recare presso l'azienda Mancom dov'è impiegato, lo spinge a chiedere una visita psichiatrica, per poter avere il permesso di lavorare da casa. Cercherà, invano, pure un colloquio con il leader dell'azienda, interpretato da un algido Matt Damon dai capelli color argento e dal buffo abbigliamento in grado di mimetizzarsi nelle fantasie di tende e carte da parati.
In ansia per aver fallito nei suoi propositi, Qohen si reca a una festa, nella quale gli avventori ballano tutti isolati l'uno dall'altro, mentre ascoltano la musica con gli auricolari dei loro Pad, e dove incontra Bainsley (la bella Mélanie Thierry) e casualmente proprio il suo capo. Sarà la svolta: la sua richiesta è approvata, ma sarà vincolata alla risoluzione di una formula finora mai accertata, il Teorema Zero: la dimostrazione che la vita non ha alcun senso, nessuna finalità. Potrà avvalersi di un supercomputer e dell'aiuto del figliol prodigo del leader di Mancom. Da qui, come se fino a questo punto The Zero Theorem non fosse stato già abbastanza disturbante e complesso, inizia il viaggio allucinato del protagonista e, insieme a lui, di tutti noi. Il nostro, infatti, inizierà a soffrire di numerosi incubi, nei quali si ritrova nudo come un verme a vagare nello Spazio, di fronte a un gigantesco buco nero. Come se tutto questo non fosse di per sé sufficiente, lo straniamento suo e nostro diventerà totale nel momento in cui la donna gli farà dono di una particolare tuta in grado di proiettarlo nella realtà virtuale, dove si rifugerà proprio con lei, stringendo una relazione. E non è tutto: Qohen scoprirà d'essere perennemente sotto il controllo della sua azienda, per mezzo di numerose videocamere nascoste. Qui mi fermo, perché le fasi finali del film meritano l'effetto sorpresa.
The Zero Theorem, lo avrete capito, è lontano anni luce da quella Fantascienza di semplice accesso cui spesso siamo sottoposti. Sembra, inoltre, legato da un fil rouge che unisce pure le esperienze artistiche passate di Terry Gilliam, da quel Monty Python: Il Senso Della Vita al già ricordato Brazil, e in qualche modo salda i temi del controllo e dell'evasione dalla realtà ai mezzi tecnologici attuali, all'epoca delle precedenti pellicole nemmeno immaginabili. Inoltre viene meno l'elemento prettamente politico, così presente nel film tratto dal libro di George Orwell, quel 1984 pubblicato nel 1948, all'alba della Guerra Fredda. Esiste, naturalmente, una rappresentazione parossistica della società futura, con le pubblicità a inseguirti lungo canaline elettroniche a snodarsi per le vie e parchi pubblici costellati di divieti, la maggior parte dei quali assurdi e incomprensibili, a creare barriere di segnaletica. La desolazione urbana in cui si muove Christoph Waltz potrebbe suggerire una visione per certi versi ancora peggiore dell'umanità: non c'è nemmeno più il bisogno di ricorrere a strutture politiche per privarci della libertà, facciamo comodamente da noi, a prescindere da qualsiasi retaggio di governo del '900.
Siamo in una dimensione più intima e ontologica: non a caso, di anima si parla e lo stesso finale richiama alla memoria opere d'alto livello come 2001: Odissea Nello Spazio, tra psichedelia e viaggi mentali dai quali non ci siamo mai ripresi, con una chiave di lettura generale forse fornita solo ai titoli di coda. È il pregio di The Zero Theorem e allo stesso tempo il suo limite, in ogni caso un film dal quale non si esce indenni.
di Ludovico Lamarra
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