Una critica sociale
Non esistono mostri più iconografici degli zombie nei film splatter o horror di fine anni '70. E Zombi (Dawn of the Dead in originale), di George A. Romero, è una di quelle pellicole a rimanere appiccicate alla pelle degli appassionati. Difficilmente si riesce a scrostarla via, tanto che, insieme alle altre due opere della trilogia dei morti viventi, diventerà pietra di paragone per qualunque altro film scritto e girato in seguito.
Gli zombie sono creature con cui abbiamo a che fare ogni giorno. Sono al volante delle auto di fronte la nostra, che procedono a 20 chilometri all'ora su quella strada dove proprio non si può sorpassare; sono in coda davanti a noi dal tabaccaio, con in mano una pila di schedine precompilate del lotto; a volte si raggruppano sul marciapiede, intasandolo completamente mentre parlano di Dio solo sa di cosa. Siamo circondati ed è normale che mettano in crisi la nostra civiltà. Nel film di George A. Romero, in effetti, l'umanità sta già collassando e i nostri eroi dovranno vedersela sia contro l'armata dei non morti, sia con predoni molto più umani, che sfruttano il vuoto d'autorità per arraffare tutto quanto serva loro. Gli stessi protagonisti fuggono dagli zombie, ma solo per ritrovarsi rinchiusi in una gabbia dorata: un centro commerciale.
A pensarci bene, è una delle soluzioni migliori in caso di collasso della civiltà, poiché un centro commerciale offre un'ottima scorta di cibo, di medicinali, di armi e di tutto quanto si possa aver bisogno per sopravvivere il più a lungo possibile. C'è, poi, questa strana metafora, per la quale è un luogo così consumistico a diventare un'ancora di salvezza di pochi superstiti contro il resto del mondo. Un resto del mondo mosso solo dall'impulso irrefrenabile d'uccidere. Già, perché gli zombie cacciano e tentano di ghermire gli umani solo per cibarsene; chi sopravvive al loro attacco è però destinato a diventare a sua volta un non morto. E allora un dubbio potrebbe assalirti, figlio delle mille interpretazioni legate alla figura dello zombie e alle mille esperienze del mondo moderno: siamo sicuri che sia la fame a spingerli verso di noi? E se, invece, fosse solo l'invidia per un cervello funzionante a costringerli a divorarci o a farci diventare come loro?
«Cresci, consuma, crepa», diceva qualcuno. Riassumeva lo stile di vita occidentale e lo zombie non poteva che esserne il riflesso storpiato, il mostro chiuso nella parte più profonda della cantina, ma pronto a liberarsi non appena abbassiamo la guardia. George A. Romero voleva fare del buon gore, ma attraverso di esso anche lanciare messaggi più sottili, ma non per questo meno penetranti. Il lato visivo riuscì perfettamente, coadiuvato anche da Dario Argento, il quale per questo Zombi si dedica parecchio, curandone il montaggio e l'edizione per i Paesi non anglofoni europei, forse non considerando affatto la potenza evocativa dell'opera. Per quanto riguarda il secondo aspetto, invece, la figura dello zombie, così come viene fuori dal film, è troppo grottesca e viene da pensare che il regista ne abbia intuitivamente tratteggiato i contorni, per mostrare all'edonistica società moderna cosa stesse diventando. Non cosa rischiava di diventare, si badi bene: George A. Romero descrive un processo in corso d'opera. In Zombi, poco a poco, la società sparisce per fare spazio ad altro: i protagonisti cercano di mantenere la loro umanità, ma basta una saracinesca lasciata aperta per fare in modo che la cruda realtà del mondo al di fuori irrompa nella loro utopia e li spinga a fare i conti con tutto quanto vogliono lasciare fuori. Puoi rischiare la vita per gli amici e vederli morire. Puoi tenere il punto sui tuoi ideali. Ma, alla fine, basta un morso per costringerti e rivalutare tutta la tua scala di valori. Non importa se sia tu ad aver offerto il braccio alle fauci del mostro o che lo abbia omaggiato uno dei tuoi compagni di sventura: combattere è lecito, ma l'orda t'annienterà o ti trarrà a sé, comunque.
di Alessandro Sparatore
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