«Forever, you’ll stay in my heart!»

Prendi una storia straordinaria e bellissima, ricca di passione, emozioni, riscatto sociale, dolore e sentimento. Aggiungi una colonna sonora già testata e composta da canzoni indimenticabili e unisci personaggi che hanno fatto la storia del nostro mondo, quali la memorabile Aretha Franklin e il leggendario attivista Martin Luther King Jr. Fabbrica un biopic di due ore e mezzo, ingaggiando come interprete la sbalorditiva Jennifer Hudson, premio Oscar come Miglior Attrice Non Protagonista in Dreamgirls. Il risultato, senza ombra di dubbio, sarà un capolavoro. Eppure, questo non è il caso di Respect, il tanto atteso lungometraggio diretto da Liesl Tommy, in cui l’unica nota funzionante è la strabiliante voce della Hudson, che non basta, però, a dare un’anima al film.

Respect ripercorre i momenti salienti dell’incredibile ed eccezionale esistenza della Regina del Soul Aretha Franklin, cantante e pianista statunitense fra le più acclamate icone della musica gospel, soul e R&B. Dall’infanzia, trascorsa nella Detroit di fine anni ’50, quando cantava nel coro gospel della chiesa di suo padre C.L. Franklyn (Forest Withaker), famoso predicatore battista, alla fama mondiale e al continuo impegno anche a fianco del suo amico Martin Luther King (Gilbert Glenn Brown) per sostenere la causa dei neri statunitensi e la lotta per i diritti civili degli afroamericani.

La vita intensa di Aretha Franklin

Una vita intensa, ricca di pathos e di grandi conquiste, in cui non sono mancati abusi, violenze e sofferenze. Una storia potente e piena di significato, che fa rumore e urla il bisogno d’essere raccontata e la necessità d’essere tramandata. Ma la Aretha Franklin di Respect appare invece remissiva e troppo spesso vittima inerme degli eventi e degli uomini della sua vita, risultando incapace di farsi portatrice del grande messaggio che dovrebbe trasmettere. La sceneggiatura si perde nella narrazione meccanica degli avvenimenti e, sminuita dagli innumerevoli dialoghi circostanziali, che minimizzano la missiva universale, soffoca l’anima della storia e l’empatia con l’artista.

Ottima è invece la ricostruzione dell’epoca dei primi anni ’60 e ’70, dai costumi al trucco fino alle ambientazioni. In sintesi, con Respect si ha l’impressione d’assistere a progetto riuscito a metà che, seppur ben strutturato, non riesce ad arrivare in fondo al cuore degli spettatori.