«Com’è l’Inferno?»
«È pieno de quarte stagioni»

Esiste un non luogo, che per convenzione ubicheremo tra il tubo catodico (o i suoi succedanei) e la materia grigia d’ogni telespettatore, dove si affollano, accalcandosi, tutte le scene e i dialoghi superflui delle serie televisive che guardiamo. Andando a memoria, ci sono il finale di Lost, i Dothraki che caricano i morti al buio in Game of Thrones, due stagioni piene di Dexter, quasi tre (non l’ultima) di The Big Bang Theory, quattro quinti della saga di The walking dead. E più passa il tempo, più quest’orgia dell’inutile si dilata, soffocandoci.

Saltare lo squalo?

Come se non bastasse, decine di esperti o sedicenti tali hanno poi preso l’abitudine di sottoporre a giudizio e catalogare il contenuto di questo spazio, coniando termini come «saltare lo squalo» e provando a decidere per noi cos’è bene e cos’è male. Dopo anni d’incredula attesa, lunghi corteggiamenti agli autori da parte di un cast divenuto leggenda e la scomparsa di Roberta Fiorentini e di Mattia Torre (si recuperi il suo La linea verticale, su Rai Play), oggi questa disamina tocca a Boris 4, quinto capitolo di una saga che ha fatto la storia, è entrata nella leggenda ed è diventata mito, o cult, come si usa dire adesso.

Meglio un pesce rosso

Come anticipato all’uscita dell’anteprima, atmosfera, ritmo, musiche e impatto comico ci sono e andando avanti non solo regge, ma convince, esalta, commuove. René Ferretti non salta lo squalo come fece Arthur Fonzarelli e il suo pesce rosso nuota ancora nella stessa vasca, nonostante sia ormai piena d’acqua lurida di deiezioni e mangime scartato, mettendo in moto la consueta caterva di battute memorabili da ripetere allo sfinimento, ributtandoci dentro a quel grottesco ma realissimo spaccato di mondo in cui ognuno di noi, a ben guardare, si trova immerso fino al collo.

Boris c’è e c’è tutta la sua fauna in grande spolvero: tutti freschi come rose, come se non fosse passato un giorno dall’ultima posa. Spiccano Antonio Catania, ormai navigato capocomico; Corrado Guzzanti che parte in sordina e poi ci regala scene degne dei suoi migliori Casi Scafroglia; e Francesco Pannofino, titanica colonna di una narrazione che prosegue dal lontano 2007.

Boris c’è

Boris c’è, con 8 episodi da mezz’ora l’uno, intensi, forse un po’ troppo asciutti sotto certi aspetti, ma che galoppano verso un finale incredibile, in cui il riso e la commozione si mescolano alla meraviglia per il coraggio e l’autoironia d’ammettere, tramite i già noti espedienti di meta-narrazione, che questa quarta stagione è un tradimento ai danni di chi, finché è stato in vita, non avrebbe voluto realizzarla. Eppure, un’altra televisione è stata possibile.