La possibilità di scegliere

Nel 1982 la Terra s’è trovata ad affrontare praticamente in contemporanea i due estremi che possono derivare da un incontro ravvicinato tra l’uomo e una forma di vita aliena. A meno di un mese di distanza arrivarono nelle sale, infatti, sia il piccolotto e sgraziato E.T., catalizzatore di tutti i più buoni sentimenti di cui un essere umano è capace, sia una Cosa diametralmente e visceralmente opposta al bene e al senso d’empatia.

Papà John Carpenter

A creare il primo furono Steven Spielberg, coadiuvato dai già leggendari Carlo Rambaldi e John Williams, mentre della seconda si occuparono un giovanissimo e quasi sconosciuto Rob Bottin, che si beccherà un esaurimento nervoso durante le riprese e proprio contro Rambaldi perderà in quell’anno il Saturn Award per gli effetti speciali, il mitologico Ennio Morricone, che scrisse un’ora di musica mai utilizzata, e uno dei più grandi maestri dell’horror: signore e signori, John Carpenter.

L’opera originale

Basato sul racconto breve del 1938 Who goes there? di John W. Campbell, La cosa è già tecnicamente un reboot del quasi omonimo classico in bianco e nero La cosa da un altro mondo, girato nel 1951 da Howard Hawks e Christian Nyby. E se già l’accostamento del film di John Carpenter con E.T. rientra a forza nel campo dell’ossimoro, è sorprendente scoprire quanto anche il paragone tra La cosa e il suo predecessore evidenzi più difformità che parallelismi.

Al netto delle differenze stilistiche, registiche e tecniche, frutto della distanza di oltre trent’anni in cui le due pellicole furono realizzate, La cosa da un altro mondo nel 1951 aveva le fattezze, sia pur pesantemente ritoccate come da tradizione all’epoca, di James Arness, mentre nel 1982 perde non solo ogni traccia riconducibile a un’ anatomia terrestre, ma anche la sia pur minima possibilità che lo spettatore potesse anche solo azzardare ad attribuirle una forma.

Capovolgere la storia

Se poi nel 1951 i membri della spedizione artica non si perdono d’animo e si organizzano spontaneamente per affrontare e sconfiggere la minaccia aliena, John Carpenter, che pare si sia mantenuto più in aderenza ai tempi e alle situazioni del racconto, capovolge in tutti i sensi la storia del primo film. Oltre a passare banalmente dal Polo Nord al Polo Sud, nella prima pellicola della cosiddetta Trilogia dell’Apocalisse il regista inizia a prendere di mira la labilità dei rapporti tra esseri umani: un team apparentemente affiatato e in grado di sopravvivere per mesi al gelo e all’isolamento è disintegrato dalla paranoia e dall’impossibilità di distinguere l’umano (o il canino) dall’alieno.

Ogni rapporto interpersonale s’altera e crolla, tra test ematici rivelatori, stragi col lanciafiamme e un esame autoptico tra i più cruenti e memorabili della storia del cinema. Fino a un finale amaro, in cui anche il duro feticcio di John Carpenter, Kurt Russell, si rassegna all’ignoto e all’inevitabile.

In definitiva, mentre quarant’anni fa, la California accoglieva a braccia aperte l’amorevole creaturina col testone, in Antartide gommapiuma, grumi di chewing gum riscaldata, marmellata, crema di mais, gelatina, maionese e altre schifezze hanno prestato servizio perché una Cosa ineffabile e disturbante tornasse a risvegliare e forse ad ampliare quegli incubi che tutta la letteratura di Howard Phillips Lovecraft aveva generato. Non si chiederà, almeno in questa sede, di scegliere l’alieno preferito. Ci è più che sufficiente ricordare che siamo così fortunati da poter operare questa scelta.