Alvaro Vitali: il ballerino di tip-tap che si fece Re del Trash
Alvaro Vitali
«Far ridere è molto più difficile che interpretare un film drammatico».
Col fischio o senza?
Scena: un bar di periferia, che trasuda anni ’70 da ogni molecola. Personaggi: un bambino spettinato e un energumeno coi baffi scritturato direttamente nella valle di Neander guardano Pierino mentre gioca al flipper. Comparse: cassiera disinteressata sullo sfondo. Svolgimento: Pierino perde rapidamente e l’energumeno lo apostrofa: «Oh, a cambiò, t’ha detto male co’ quella palla, eh?». E Pierino, serafico: «Essì, perché a tu’ padre co’ due j’ha detto bene». Risate a profusione.
Un padre fondatore
Può piacere o non piacere: può scatenare ilarità, dando l’abbrivio a una fragorosa valanga di battute pecorecce citate sulla scia di ricordi, vividi o sbiaditi, oppure può far storcere il naso e suscitare i commenti stizziti di quanti vivono con esasperazione questo amore per il trash. Al netto di come lo si consideri, questo è l’umorismo della commedia sexy all’italiana e questo è Alvaro Vitali, senza mezzi termini uno dei Padri Fondatori del genere.
Un corpo, un destino
Non è difficile capirne il motivo. Per la sua fisicità di uomo basso, grassottello e piriforme, per la caricatura vivente che sono i tratti del suo volto e per il suono stridulo della sua vocetta querula, Alvaro Vitali sembra essere il prodotto di un esperimento: un essere concepito e portato al mondo al solo scopo di recitare nei film della commedia sexy.
Decine e decine di film in cui altri idoli della categoria, quali Lino Banfi e Gianfranco D’Angelo, lo bullizzano e lo crepano di botte mentre l’eterna Edwige Fenech e uno stuolo infinito di semidee seminude, tutte almeno mezzo metro più alte di lui lo mandano in un bestiale visibilio.
Alla corte di Fellini
Eppure, la carriera di Alvaro Vitali non voleva essere questa. Da giovane s’era dedicato al ballo, a quanto pare con grande passione. Ma non si sfugge al destino, specie se si presenta sotto forma di Federico Fellini che, stregato dalle sue fattezze, lo fece esordire sul grande schermo in Fellini Satyricon, lo rivolle in Roma nei panni di un ballerino di tip-tap, poi lo schiaffò tra i suoi Clowns (1971) e subito appresso lo mise in classe con Titta in Amarcord (1973).
Un habitus
Anche Roman Polanski volle inserirlo tra i grotteschi personaggi della villa in cui è ambientato il suo Che? (1972), poi toccò a Dino Risi, Mario Monicelli, Alberto Sordi e molti altri registi che di Alvaro Vitali sfruttarono esclusivamente il suo habitus di macchietta umana. E così via, lungo una spirale di comparsate (si lascerà decidere a chi legge se in salita o in discesa), che pian piano dilagarono nel trash più assoluto e acclamato, portarono a un successo commerciale strepitoso e alla nascita di icone quali Pierino, Giggi il Bullo e Paulo Roberto Cotechinho, centravanti di sfondamento.
«Non sono cattiva, è che mi disegnano così», diceva Jessica Rabbit: magari anche per la carriera di Alvaro Vitali è valso un discorso simile. Non lo sappiamo e forse non è nemmeno importante saperlo. Sicuramente è importante augurarci di vederlo ancora, dopo quel tanto favoleggiato Deliriumpsike, thriller per la regia di Luigi Pastore. Chissà che la ruota non continui a girare.