«Racing is a great mania to which one must sacrifice everything»

Michael Mann scaldava i motori da un bel po’, in preparazione di un suo film dedicato al Grande Vecchio delle corse automobilistiche e, finalmente, dopo anni di brusche frenate e faticose ripartenze, il regista è riuscito, ispirandosi a Enzo Ferrari: the man and the machine, biografia firmata nel 1991 da Brock Yates, a scendere in pista con l’atteso biopic.

Una scandalosa assenza!

Lo ha fatto nonostante la scandalosa assenza di Pierfrancesco Favino, ma col supporto di una scuderia di tutto rispetto. Se Adam Driver, da par suo, non ci fa rimpiangere il fatto che il ruolo del Drake non sia stato affidato a un italiano, offrendo un’interpretazione più che interessante del controverso e spigolosissimo fondatore della casa del cavallino rampante, sta di fatto che i giri salgono, il motore romba, ma Ferrari va avanti a singhiozzo.

Il film si concentra su un segmento molto limitato della storia del Commendatore e della sua casa automobilistica: quel funesto 1957, in cui rischio di bancarotta, morti e una bulimica vita sentimentale scuotono cavallino e Cavaliere fino alle fondamenta.

Come in pista

L’intento di Michael Mann, a ben guardare, era ambiziosissimo e degno di lode. L’intera pellicola è strutturata per essere una calzante metafora di una delle mitiche corse su strada di tanti anni fa: gare avvincenti, pericolose da mozzare il fiato e in cui, oltre al percorso, agli avversari e alla propria stessa vettura, la sorte pone un ostacolo dopo l’altro, mentre il pilota, Ferrari, punta con ferocia e cinismo al traguardo, sacrificando tutto il sacrificabile per raggiungerlo.

Dall’idea alla sua realizzazione

Dall’idea, eccezionale, alla sua realizzazione, però, troppi elementi infiacchiscono lo slancio e rallentano l’andatura. Non sono sufficienti l’accuratezza dei costumi, né la bella fotografia, né purtroppo bastano i bellissimi modelli delle auto, stupendamente ricreati da una rinomata officina modenese, né il brivido delle sequenze di corsa, incidenti compresi, in notturna e diurna, riprese su scorci e paesaggi scelti e fotografati con ammirevole cura e maestria dalle migliori angolazioni.

Anche gli attori ce la mettono tutta: Penelope Cruz s’impegna molto a incarnare il misto di rabbia e dolore di una moglie tradita e sempre in secondo piano; Patrick Dempsey gestisce bene il ruolo della Volpe Argentata Piero Taruffi ma, al di là del bell’omaggio all’Italia, evidentemente fatto da un non italiano, la corsa che Michael Mann desiderava rappresentare su pellicola, oltre che su strada, resta imbottigliata in un ingorgo, punteggiato da qualche raro momento di viabilità scorrevole.

Enzo

Intenzioni a parte, al regista e conseguentemente ad Adam Driver, va riconosciuto il merito d’aver mantenuto, durante tutto il tragitto, calma e freddezza sufficienti affinché il ritratto di Enzo Ferrari risulti tracciato senza debordare nell’agiografia o nella denigrazione di un personaggio che la sua corsa, sacrificando tutto, senza reticenze o esitazioni, l’ha vinta.